Mobbing?
Vediamo il seguente caso.
Tizio è venuto a sapere da un collega che il suo nuovo capo settore, Caio, ha parlato di lui ai colleghi con molto disprezzo. Si tratta di mobbing? Cosa può fare Tizio?
Va premesso che per giurisprudenza del Tribunale federale il mobbing è definito come una "persecuzione psicologica che viene esercitata sul posto di lavoro da parte di colleghi o di superiori, allo scopo di provocare il licenziamento di una determinata persona o di indurla alle dimissioni. Il mobbing si definisce come una concatenazione di parole, dicerie e/o atti ostili, ripetuti di frequente su un lungo periodo, con i quali si tenta di isolare, emarginare e finanche escludere una persona al suo posto di lavoro. La vittima è sovente posta in una situazione tale per cui ogni atto considerato singolarmente, al quale un testimone ha assistito, può anche apparire sopportabile, mentre nell’insieme dei vari comportamenti conduce a una significativa destabilizzazione della sua personalità. Non vi è tuttavia persecuzione psicologica per il solo fatto che esiste un conflitto nelle relazioni professionali o un cattivo clima di lavoro, né per la circostanza che un dipendente sia stato invitato a conformarsi agli obblighi derivanti dal contratto di lavoro, anche in modo insistente e minaccioso, o ancora per il fatto che un superiore gerarchico non abbia soddisfatto completamente e sempre ai doveri che gli incombono nei confronti dei collaboratori e delle collaboratrici" (sentenza TF 4A_26/2010 del 25 agosto 2010 consid. 6.1; sentenza 4A_32/2010 del 17 maggio 2010 consid. 3.2; 4A_245/2009 del 6 aprile 2010 consid. 4.2).
Per aversi mobbing è quindi necessario che i comportamenti ostili siano ripetuti frequentemente e per una certa durata di tempo.
Venendo al caso di Tizio, parrebbe che al momento si sia trattato di un unico episodio in cui il capo settore ha parlato male di Tizio. In concreto, mancando il requisito della ripetizione degli atti ostili su di un lungo periodo di tempo, non può quindi dirsi integrata la fattispecie del mobbing. Ciò non toglie tuttavia che anche il singolo atto possa di per sé integrare un’altra fattispecie anche di rilevanza penale, come ad esempio la diffamazione o la calunnia. Andrebbe quindi compreso cosa abbia effettivamente detto il capo settore così da valutare l’eventualità di una denuncia penale.
Se la gravità delle affermazioni di Caio fosse tale e fosse corroborata da prove (essenzialmente testimonianze), sul piano del rapporto di lavoro, il datore di lavoro avrebbe evidentemente la possibilità di licenziare con effetto immediato il capo settore per causa grave ex art. 337 e seg. CO.
Se, invece, le esternazioni di Caio non dovessero di per sé costituire una fattispecie penalmente perseguibile, allora è possibile che ci si trovi di fronte ad un caso di mobbing allo “stadio embrionale”. Per Tizio sarebbe quindi assolutamente importante raccogliere delle prove di ogni futura diceria o atto ostile di Caio (ad esempio: colleghi di lavoro pronti a testimoniare in suo favore, sms dal tono ostile ricevuti da Caio, certificati medici, scritti o quant'altro possa essere utile a dimostrare il mobbing e il disprezzo espresso dal capo settore) e che segnali gli episodi (comprovabili) al suo datore di lavoro. Quest’ultimo ha infatti - per legge - l'obbligo di tutelare la salute dei suoi dipendenti ed è quindi tenuto ad occuparsi della faccenda per tentare di risolverla (art. 328 CO e 6 LL).
Se dovesse succedere, come non è raro che accada, che il datore di lavoro non si occupa della situazione (non apre un’inchiesta interna e/o non prende alcun provvedimento) e gli atti ostili di Caio continuano, allora egli potrebbe incorrere in una responsabilità sul piano civile nel caso in cui, ad esempio, Tizio fosse indotto a dimettersi a causa della situazione divenuta insopportabile.
Sarebbe inoltre ravvisabile una responsabilità penale amministrativa per il fatto che, quale datore di lavoro, non si è occupato adeguatamente della fattispecie, vendendo così meno al suo dovere di tutelare la salute dei lavoratori alle sue dipendenza (art. 6 e 59 e seg. LL.)
Tizio è venuto a sapere da un collega che il suo nuovo capo settore, Caio, ha parlato di lui ai colleghi con molto disprezzo. Si tratta di mobbing? Cosa può fare Tizio?
Va premesso che per giurisprudenza del Tribunale federale il mobbing è definito come una "persecuzione psicologica che viene esercitata sul posto di lavoro da parte di colleghi o di superiori, allo scopo di provocare il licenziamento di una determinata persona o di indurla alle dimissioni. Il mobbing si definisce come una concatenazione di parole, dicerie e/o atti ostili, ripetuti di frequente su un lungo periodo, con i quali si tenta di isolare, emarginare e finanche escludere una persona al suo posto di lavoro. La vittima è sovente posta in una situazione tale per cui ogni atto considerato singolarmente, al quale un testimone ha assistito, può anche apparire sopportabile, mentre nell’insieme dei vari comportamenti conduce a una significativa destabilizzazione della sua personalità. Non vi è tuttavia persecuzione psicologica per il solo fatto che esiste un conflitto nelle relazioni professionali o un cattivo clima di lavoro, né per la circostanza che un dipendente sia stato invitato a conformarsi agli obblighi derivanti dal contratto di lavoro, anche in modo insistente e minaccioso, o ancora per il fatto che un superiore gerarchico non abbia soddisfatto completamente e sempre ai doveri che gli incombono nei confronti dei collaboratori e delle collaboratrici" (sentenza TF 4A_26/2010 del 25 agosto 2010 consid. 6.1; sentenza 4A_32/2010 del 17 maggio 2010 consid. 3.2; 4A_245/2009 del 6 aprile 2010 consid. 4.2).
Per aversi mobbing è quindi necessario che i comportamenti ostili siano ripetuti frequentemente e per una certa durata di tempo.
Venendo al caso di Tizio, parrebbe che al momento si sia trattato di un unico episodio in cui il capo settore ha parlato male di Tizio. In concreto, mancando il requisito della ripetizione degli atti ostili su di un lungo periodo di tempo, non può quindi dirsi integrata la fattispecie del mobbing. Ciò non toglie tuttavia che anche il singolo atto possa di per sé integrare un’altra fattispecie anche di rilevanza penale, come ad esempio la diffamazione o la calunnia. Andrebbe quindi compreso cosa abbia effettivamente detto il capo settore così da valutare l’eventualità di una denuncia penale.
Se la gravità delle affermazioni di Caio fosse tale e fosse corroborata da prove (essenzialmente testimonianze), sul piano del rapporto di lavoro, il datore di lavoro avrebbe evidentemente la possibilità di licenziare con effetto immediato il capo settore per causa grave ex art. 337 e seg. CO.
Se, invece, le esternazioni di Caio non dovessero di per sé costituire una fattispecie penalmente perseguibile, allora è possibile che ci si trovi di fronte ad un caso di mobbing allo “stadio embrionale”. Per Tizio sarebbe quindi assolutamente importante raccogliere delle prove di ogni futura diceria o atto ostile di Caio (ad esempio: colleghi di lavoro pronti a testimoniare in suo favore, sms dal tono ostile ricevuti da Caio, certificati medici, scritti o quant'altro possa essere utile a dimostrare il mobbing e il disprezzo espresso dal capo settore) e che segnali gli episodi (comprovabili) al suo datore di lavoro. Quest’ultimo ha infatti - per legge - l'obbligo di tutelare la salute dei suoi dipendenti ed è quindi tenuto ad occuparsi della faccenda per tentare di risolverla (art. 328 CO e 6 LL).
Se dovesse succedere, come non è raro che accada, che il datore di lavoro non si occupa della situazione (non apre un’inchiesta interna e/o non prende alcun provvedimento) e gli atti ostili di Caio continuano, allora egli potrebbe incorrere in una responsabilità sul piano civile nel caso in cui, ad esempio, Tizio fosse indotto a dimettersi a causa della situazione divenuta insopportabile.
Sarebbe inoltre ravvisabile una responsabilità penale amministrativa per il fatto che, quale datore di lavoro, non si è occupato adeguatamente della fattispecie, vendendo così meno al suo dovere di tutelare la salute dei lavoratori alle sue dipendenza (art. 6 e 59 e seg. LL.)